Mario Giacomelli



Dall'intervista di Frank Horvat (Senigallia 1987)
Quando tu fotografi, hai un'immagine di fronte, che attraverso un forellino entra nella macchina, e tu puoi averne una copia, un estratto. Cosi sono i miei occhi, uno strumento per prendere, per rubare, per immagazzinare cose che vengono poi intrise e rimesse fuori, per gli occhi degli altri.

ho una macchina che ho fatto fabbricare, una cosa tutta legata con lo scotch, che perde i pezzi... ho questa da quando ho iniziato, sempre la stessa. Con lei ho vissuto le cose, belle o brutte, con lei ho diviso tanti attimi della mia vita... mi rattrista solo l'idea di staccarmi da lei.

Una volta ho vinto un apparecchio di piccolo formato, in un concorso, ma non sono riuscito a fotagrafare, era troppo veloce, non c'era più la partecipazione come con la mia macchina, non avevo il tempo di pensare, scattavo quasi inutilmente. E perdevo la gioia più bella, che è questo aspettare, questo preparare l'immagine, girare, cambiare il rullino (…) se potessi, fotograferei senza macchina, non ho questo grosso amore per la meccanica.

Per i vecchi nell'ospizio ho adoperato un lampo. Volutamente. Perché alla cattiveria di chi ha creato il mondo, di chi ci fa invecchiare, a questa cattiveria aggiungo anche la mia cattiveria. Non tanto per mostrare la materia della pelle, ma per aggiungere qualche cosa di ancora più forte, un contrasto. Il lampo modifica la realtà, la fa più mia.

Se dovessi scegliere tra le cose fatte, salvarne una, salverei l'ospizio. Non per l'ospizio in sè, dell'ospizio non me ne frega niente. Quello che mi importa è l'età, il tempo. Tra me e il tempo c'è una discussione sempre aperta, una lotta continua. L'ospizio me ne dà una dimensione più esatta...

La mia prima macchina, una Comet, l'ho comprata il 24 dicembre. II 25 sono andato al mare, e ho provato - ma non capivo neanche come funzionava - ho provato con queste pose molto lunghe. Le onde venivano verso di me e io spostavo la macchina in senso opposto. Ce ne sono state tre a quattro giuste, come le avevo immaginate. Le altre erano da buttare. Così, al primo contatto tra me, la natura e la macchina fotografica, ho scoperto che questo aggeggio meccanico, che prima mi faceva paura, poteva diventare una continuazione di me stesso.

Io credo all'astrattismo, per me l'astrazione è un modo di avvicinarsi ancora di più alla realtà. Non mi interessa tanto documentare quello che accade, quanto passare dentro a quello che accade...

Le immagini che scelgo sono quelle che rendono le sensazioni che ho provato nel momento in cui scattavo, le sensazioni che vorrei non perdere, che vorrei dare ad altri. Scelgo le immagini che potrebbero aiutare gli altri a riflettere, ad amare di più la vita...

Sono partito da questa terra, come la vede il contadino che ci lavora, poi ho voluto vedere la stessa cosa da sopra. E guardandola così mi è sembrato, ancora una volta, di essere entrato dentro, la terra non era più terra ma segno, come le rughe delle mani, come la pelle dei vecchi... le rughe della terra e della pelle mi insegnano delle cose che non conoscevo, che il contadino non può conoscere, che quello che guida l'aereo non può sapere... ma qualche volta mi chiedo qual'è la relazione tra la realtà che fotografo e questo segno che resta. Le rughe dei vecchi sono ancora i vecchi, è ancora la loro sofferenza?

Photo Mario Giacomelli
diranno che sono pazzo, ma per me va bene essere un pazzo che si accorge di quello che accade attorno a lui, per me sono più pazzi quelli che non si accorgono. Di tutto no, non mi accorgo, però vorrei accorgermi di tante cose, apposta cerco le cose piccole, perchè le grosse mi soffocano, non sono fatto per le cose grandi, preferisco far grandi le cose piccole.

qui nella mia città, non ho mai camminato con la macchina fotografica in mano, la gente non sa che io fotografo. Mi dà fastidio la gente che sta attorno, che interroga. Dunque mi allontano un po'. Quanto basta per trovare un mondo in cui immergermi. In campagna, per esempio, non mi ero mai reso conto del profumo del fieno, dopo la pioggia. Una cosa che non conoscevo, cinquant'anni inutili per questa cosa, vedi quante cose ci sono da conoscere, però sono tutte piccoline, quasi non fotografabili, ma che si impastano nell'immagine.

Il luogo dove le cose accadono non è così importante, un luogo vale l'altro. Mi dicono: come fai a fare queste fotografie ? Ma non tengono conto che sono le immagini che scelgono me, non io che scelgo loro... il paesaggio non scappa, ma io ho sempre paura che resti lì solo per un attimo, lo faccio col cavalletto, perché faccio "due e ventidue", devo sempre ricordarmi i numeri perché non capisco mai, con "due e ventidue" ci vuole per forza il cavalletto, allora ho sempre paura che mi scappi, continuo a guardare mentre sposto il cavalletto, trattengo il fiato, io quando fotografo non respiro, mi blocco e scatto, quella per me è la gioia più bella, come se avessi spogliato le più belle donne del mondo. Quando loro si lasciano spogliare. Se son riuscito a fotografarle vuol dire che è andata bene. Se no, si dirà che le ho sognate, e basta.

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